La scuola in vetrina

Sono appena terminati gli ultimi Open day, che – nel linguaggio cifrato dell’autonomia di facciata, ignoto a chi non abbia almeno un nipotino studente e invece assai familiare a genitori e insegnanti – scandiscono il periodo conclusivo del cosiddetto “Orientamento”, quello in cui le scuole devono tentare di attirare il maggior numero di iscritti, specie ora che la soglia dei mille alunni decide sopravvivenza o accorpamento. Le iscrizioni sono chiuse.





Una domenica, in genere, con la scuola aperta, per accogliere potenziali utenti che possono così prendere contatto con struttura, Piano dell’offerta formativa, attività svolte durante l’anno; accompagnati da insegnanti – che accolgono, spiegano, illustrano – talvolta coadiuvati dagli studenti più grandi. Una lettera al Corriere vi individua «una sorta di campagna promozionale della scuola, in cui si mostrano i locali, si illustrano le attività ed i progetti e si conosce parte del corpo docente della scuola presso la quale si vorrebbe iscrivere il proprio figlio». Il “responsabile dell’orientamento” (l’insegnante affidatario dell’incarico) si dedica soprattutto a organizzare gli eventi e a girare per le scuole medie del proprio bacino di utenti potenziali per magnificare ai genitori le attività della propria scuola ed invitarli alla kermesse casalinga.
Ma i ragazzi delle medie che passeggiano tra i corridoi dei vari istituti vengono davvero orientati? E, soprattutto, la loro scelta sarà frutto di un autentico orientamento o il confluire spontaneo di rendimenti e destini sociali già determinati: i bravi-ricchi ai licei, i somari-poveri-migranti al professionale (o, al più, al tecnico)? Nei programmi del ’79 si afferma che la scuola media è formativa ed è orientativa, perché promuove le condizioni affinché i ragazzi compiano scelte personali e realistiche in un mondo in continua trasformazione, consolidando il proprio processo identitario e capacità decisionali fondate su una verificata conoscenza di sé. Non sono, dunque, “orientativi” gli edifici, la maggiore o minore ospitalità degli insegnanti, il numero dei progetti sviluppati. E invece si è rinunciato a scandagliare il necessario rapporto tra orientamento reale (inseparabile da una collaborazione serrata tra ordini di scuola) e didattica: non solo orientare, ma promuovere le condizioni per orientarsi, dando allo studente l’opportunità di partecipare al processo che rende possibile il formarsi del sapere.
Ancora una volta la pratica sconfessa la teoria: a vincere è invece, nella sede idealmente più lontana, la scuola, una visione mercificante, che ha reso l’autonomia scolastica sbiadita controfigura dell’idea originale. Un intero sistema scolastico davvero orientante non dovrebbe fare dell’orientamento un fatto occasionale, frettoloso e sintetico giudizio a conclusione della scuola media, che caldeggia studi liceali o tecnico-professionali, ma costante azione interna del processo educativo, al di là di automatismi e rapporti di causa-effetto tra quota di benessere economico e sociale e attitudini individuali. Do-vrebbe, insomma, concretizzare la funzione emancipante dell’istruzione.
La scuola-vetrina può forse abbagliare il “cliente”, ma certamente impedisce al cittadino di valutare in modo critico se stesso e i percorsi formativi che la comunità educante gli offre.
da Adista 9/12

di Marina Boscaino

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