Quel che resta della scuola, quel che resta alla scuola: lettera aperta al nuovo ministro dell’istruzione

Stati generali dell’Università - Sapienza, Roma 31 marzo 2012

di Anna Angelucci

     Nell’immobilismo che, come ebbe a scrivere pochi mesi fa Roberto Saviano, ha caratterizzato l’azione dei governi Berlusconi, segnatamente nell’ultimo triennio, c’è tuttavia un’eccezione: la pervicace bulimia dei provvedimenti legislativi sulla scuola che, sommati ai draconiani tagli lineari su questo specifico capitolo di bilancio, hanno prodotto il più massiccio processo di impoverimento e di depotenziamento della scuola statale italiana nella storia della nostra Repubblica.
     Con la legge 133 del 2008, alla scuola sono stati sottratti in 3 anni più di 8 miliardi di euro e 140.000 lavoratori.






     Con due circolari ministeriali (del 14/12/2008 e del 22/2/2010), il MIUR ha congelato i crediti delle scuole italiane verso l’amministrazione centrale, + di 1 miliardo di euro. Nell’ultima legge di stabilità e di bilancio dello Stato, il totale della spesa di competenza del MIUR per il 2012 subiva un’ulteriore riduzione di + di 1 miliardo di euro, coerentemente con l’obiettivo, da raggiungere entro il 2015, di assegnare soltanto il 3,7% del PIL alla spesa per l’istruzione (mentre nel 2010 era il 4,2% e in Europa supera oggi il 6%).
     Nel totale disprezzo delle sentenze del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato (che hanno giudicato illegittima l’applicazione della legge di riordino dei cicli scolastici), il MIUR ha imposto nella scuola secondaria di II grado una riforma che ha ridotto quadri orari, materie, attività di laboratorio; che ha pesantemente penalizzato le materie storico-letterarie; che ha abolito tutte quelle sperimentazioni che permettevano di coltivare le eccellenze; che ha depauperato, in nome di una malintesa “essenzializzazione”, la dimensione umanistica dei licei e quella operativa degli istituti tecnici.           ‘Meno ore, più approfondimento’, recitava fino a poco tempo fa uno dei tanti slogan che appaiono sul sito istituzionale del Ministero: un’affermazione difficilmente comprensibile sul piano algebrico prima ancora che logico.
     Con la legge 169 del 2008, la scuola elementare ha rimesso indietro le lancette della storia: il ritorno alla maestra unica, il voto di condotta, l’orario a 24 ore, la progressiva eliminazione del tempo pieno, hanno cancellato con un colpo di spugna quel profilo pedagogico-didattico che, a partire dagli anni Settanta, ha reso la scuola primaria italiana un modello nel mondo intero.
     Il combinato disposto tra il piano programmatico attuativo dell’art. 64 della legge 133/2008 e i successivi provvedimenti di riforma, i decreti, le circolari, le note ministeriali si configura dunque come un’opera di dismissione della scuola statale sistematicamente perseguita, attraverso una serie di manovre a tenaglia.
Ma non basta.
     Nel sistema di relazioni tra il governo italiano e le istituzioni europee, la scuola occupa un posto di rilievo.
Alla sollecitazione verso l’uso costante di “indicatori di performance” nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione, contenuta nella missiva mandata il 5 agosto 2011 dalla BCE, il governo uscente aveva risposto a ottobre dichiarando che l’accountability delle singole scuole sarebbe stata accresciuta sulla base delle prove Invalsi, alludendo per l’anno scolastico 2012/13 a un programma di ristrutturazione per quelle con risultati insoddisfacenti. Del tutto in linea il nuovo governo, che, a scanso di equivoci e confronti nel metodo e nel merito, definisce ex lege le prove Invalsi come “attività ordinaria d’istituto” inserendole nel mare magnum del Decreto Semplificazioni attualmente in discussione in Parlamento.
      Mentre i nostri decisori politici si affannano a moltiplicare la somministrazione obbligatoria e censuaria di test standardizzati ogni anno a 3 milioni di studenti (in II e V elementare, in I e III media, nel II anno della scuola superiore e presto anche agli Esami di Stato, con un furor somministrandi che non ha pari in Europa, pretendendo, contro ogni evidenza docimologia, di usare lo stesso test per misurare tutto, dagli apprendimenti degli studenti all’efficacia degli insegnamenti, all’efficienza dei dirigenti scolastici, delle scuole e del sistema nel suo complesso) i risultati delle indagini pedagogiche italiane e internazionali più recenti invitano a dir poco alla cautela.
     Nelle loro analisi sul "valore aggiunto", esse rilevano differenze significative di efficacia tra classi, non tra istituti. Rilevano inoltre una forte correlazione tra rendimento e status socio-culturale e addirittura l'incremento delle differenze di rendimento tra studenti con opposte caratteristiche socio-culturali, il che significa che le scuole inserite in contesti svantaggiati sono già in partenza penalizzate. Il "valore aggiunto" appare dunque, sotto il profilo pedagogico, come un indicatore scarsamente informativo, se non addirittura fuorviante e iniquo.
     Il test standardizzato a scelta multipla che cosa misura? Misura forse lo spirito critico e autocritico dello studente? La sua capacità di rielaborazione personale, di riflessione, di interpretazione e di analisi, in un’ottica multidimensionale e pluridisciplinare? Stimola forme di apprendimento cooperativo? Sviluppa e arricchisce la metacognizione? Niente di tutto questo, naturalmente. E allora occorrerà solo addestrare i nostri studenti a non porsi troppe domande quando leggono, a limitare le ipotesi interpretative e di senso, ad attivare risposte semplici, immediate, automatiche e, soprattutto, convenzionali. Le stesse, uguali per tutti, così come previsto dall’Invalsi. E come ci impone la realtà globalizzata, nel processo inarrestabile di rifeudalizzazione del lavoro e dei rapporti sociali cui stiamo assistendo, impotenti.
     Sapete chi è Diane Ravitch? Diane Ravitch è ordinaria di Scienze dell’Educazione alla N.Y.U., e di Storia dell’Educazione alla Columbia University. Dal 1991 al 1993 è stata responsabile dell’ufficio di ricerca e sviluppo del Dipartimento dell’Educazione, sotto la presidenza di G. Bush; dal 1997 al 2004 ha collaborato al programma federale di testing come membro del National Assessment Governing Board; sotto la presidenza di Bill Clinton ha collaborato con il responsabile del Dipartimento dell’Educazione; nel 1999 è stata uno dei membri fondatori della Koret Task Force presso la Stanford University: la T. F. supporta le riforme dell’istruzione americana basate sul principio dell’accountability. Nell’aprile del 2009 si è polemicamente dimessa dall’incarico. Nel 2010 ha pubblicato “The death and the life of the great american school system: how testing and choise are underminig education”, in cui nega validità scientifica ai test e rinnega la loro funzione di misurazione delle conoscenze e delle capacità di uno studente e, su queste, delle singole scuole. Sentiamo cosa ci dice:
“Se vogliamo migliorare l’istruzione, dobbiamo prima di tutto avere una visione di cosa sia una buona istruzione […..] Chiunque abbia a che fare con l’istruzione dei ragazzi deve chiedersi perché noi educhiamo. In che cosa consiste una persona ben istruita? Quali conoscenze deve aver conseguito? Cosa ci aspettiamo quando mandiamo i nostri figli a scuola? Cosa vogliamo che loro imparino e conquistino durante la loro permanenza a scuola fino al diploma? Certamente noi vogliamo che imparino a leggere, a scrivere e a far di conto. Queste sono le abilità di base su cui poggiano tutti gli altri apprendimenti. Ma non è tutto. Noi vogliamo prepararli ad una vita sensata. Noi vogliamo che siano in  grado di pensare con la propria testa quando sono nel mondo da soli. Noi vogliamo che abbiano una bella personalità e che sappiano prendere decisioni sulla loro vita, il loro lavoro, la loro salute. Noi vogliamo che affrontino le gioie e le difficoltà della vita con coraggio e con humour. Noi speriamo che essi siano gentili e compassionevoli nei loro comportamenti con gli altri. Noi vogliamo che abbiano il senso della giustizia e della bellezza. Noi vogliamo che capiscano la loro nazione e il mondo e le sfide che abbiamo di fronte. Noi vogliamo che siano cittadini attivi e responsabili, preparati a formulare proposte con attenzione, ad ascoltare differenti punti di vista e a prendere decisioni razionalmente. Noi vogliamo che loro imparino scienze e matematica per capire i problemi della vita moderna e partecipare alla ricerca delle soluzioni. Noi vogliamo che essi apprezzino il patrimonio artistico e culturale della nostra e delle altre società. Ognuno di noi potrebbe allungare sempre di più la lista dei risultati sperati, ma un punto deve essere chiaro. Se questi sono i nostri obiettivi, l’attuale, angusta focalizzazione sul nostro regime nazionale di test non è sufficiente per raggiungere nessuno di essi”.
     E’ un libro che consiglio al nostro ministro di leggere.
     La scuola statale italiana, un sistema geograficamente e antropologicamente complesso che rispecchia le profonde varietà sociali, economiche e culturali del nostro territorio, è oggi un malato grave.
Un malato grave che sopravvive solo grazie alle cure volontarie di quei lavoratori e di quelle famiglie che, nonostante tutto, credono fortemente nella funzione di promozione civile e sociale e di garanzia di pari opportunità che il mandato costituzionale ancora oggi le assegna. Un malato grave a cui l’Europa chiede di alzarsi e correre, per gareggiare in merito, efficienza, efficacia, innovazione, competitività, mercato.
     La forza di un sistema di istruzione si alimenta con investimenti nella formazione permanente delle sue risorse umane, rigettando a priori qualunque forma di privatizzazione; con lo snellimento della burocrazia e l’arricchimento di un capitale culturale solistico e non settoriale; con la promozione di una cultura della valutazione costruita in primis sull’autovalutazione (proprio come noi insegniamo ai nostri alunni e come ci chiede l’art. 21, c. 9, della legge 59/97); con l’analisi articolata e ragionata dei suoi complessi processi di insegnamento/apprendimento e non di singoli, parziali prodotti; un’analisi condotta attraverso forme e indicatori qualificati, costruiti su valori condivisi in primo luogo dai soggetti della scuola ma, soprattutto, che sia preceduta da investimenti significativi sulla sicurezza degli edifici scolastici e dalla creazione di nuove scuole, non dal dimensionamento; che sia accompagnata da investimenti significativi sulle attività didattiche dei bambini e degli adolescenti normodotati, disabili, non italofoni, o con bisogni speciali, partendo dall’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, come accade nei paesi civili; dall’istituzione di un biennio unitario in cui tutti studino italiano, latino, inglese, storia, matematica, scienze, arte e geografia; da una drastica riduzione del numero degli alunni per classe e dalla creazione di un organico stabile e funzionale in ogni singola scuola, al quale venga garantito uno stipendio adeguato, agevolazioni fiscali sull’acquisto di libri e materiali didattici, condizioni di lavoro dignitose, una formazione universitaria iniziale e in itinere di alto profilo.
      Nel 2006, il Commissario europeo per l’istruzione, la formazione, la cultura e il multilinguismo, Jan Figel’, spiegò che “sistemi d’istruzione e formazione efficienti possono avere un notevole impatto positivo sulla nostra economia e società ma le disuguaglianze nell’istruzione e nella formazione hanno consistenti costi occulti che raramente appaiono nei sistemi di contabilità pubblica”.
Se il nuovo ministro e il nuovo governo non riconosceranno nella necessità di risollevare radicalmente e immediatamente le sorti della scuola italiana un obiettivo prioritario, una vera e propria emergenza, i costi, sociali ed economici, che il nostro paese sarà destinato a pagare saranno davvero insostenibili.


Fonte articolo: Retescuole