Il diritto romano e il progetto "Adotta un cervello" del liceo Beccaria di Milano

di Marcella Raiola - 14 aprile 2013


Tempo fa, ho assistito ad un incontro tra docenti esperti di diritto romano. I relatori si chiedevano, assumendo posizioni diverse e sfumate, se il diritto romano fosse ancora riconoscibile negli istituti moderni del diritto privato italiano o se, invece, le sue strutture, forme e procedure fossero state obliate perché del tutto incompatibili col diritto moderno e i suoi sviluppi.

L’episodio, per me doloroso e sconcertante, del Liceo Beccaria, ha fornito indirettamente una risposta a quel quesito, o, almeno, ha sbilanciato la discussione a favore della tesi della continuità giuridica dall’antica Roma ai giorni nostri.

Mi spiego: il diritto romano fu un diritto pragmatico, che nasceva non dalla teorizzazione di un principio generale da cui dedurre le norme, ma dalle urgenze concrete della vita di individui che, da contadini di un piccolo villaggio, si ritrovarono padroni di un impero multietnico, multiconfessionale e “plurale”.







Il diritto romano fu un diritto “casistico”, insomma, ma lo fu fino a quando la casistica non venne opportunamente e magistralmente generalizzata e codificata, in modo che si passasse dall’estemporaneità della reazione del singolo magistrato alla più equa, sicura e universale applicazione di una già prevista norma ormai accettata e interiorizzata dalla popolazione.

La creazione e interiorizzazione di una norma pubblica di riferimento consente alla popolazione di uno Stato di agire in conformità ad essa, ritenendola e riconoscendola utile alla sussistenza della comunità nella sua interezza e nella sua compattezza irrinunciabile. In questo modo, è anche possibile prevenire il ricorso alla magistratura, che è sempre l’ultima ratio nel disciplinamento dei rapporti sociali.

Quello che il Beccaria in linea di principio ha riesumato, a dispetto della strombazzata “modernità” del processo che è stato innescato, e approfittando di un vuoto di potere drammatico e prolungato, che favorisce tali fenomeni di “spontaneismo giuridico”, è l’arcaico diritto misurato e modellato, in assenza di principi generali accreditati e condivisi, sul caso singolo, sulla contingenza, sull’interesse particolare, in attesa e nella speranza che tale interesse particolare, moltiplicandosi i casi di interessi analoghi, venga poi trasformato in norma cogente per tutti, nel disprezzo più totale per chi abbia altri interessi, per chi non abbia le condizioni (materiali o sociali) per accogliere e mettere a frutto anche per sé la nuova norma, ovvero per chi da quella norma è danneggiato anziché favorito.

Dal dibattito che sto seguendo e da quel che leggo, vedo che non emerge assolutamente questa implicazione teorica cruciale! Si discute in termini di concretezza, di vantaggio di bottega, di implementazione dei risultati, di equilibrio tra rispetto della libertà dei docenti e donazioni private (che a me paiono cose inconciliabili, sinceramente!), di soddisfazione della “utenza” e di compiacimento per la lodevole iniziativa personale presa quando e dove il potere manchi o rinunci, ma non c’è ombra di riflessione su ciò che l’estensione analogica di questa prassi di “surroga” dei doveri dello Stato potrebbe determinare! Il problema sorse già con la sicurezza e con la proposta delle “ronde territoriali”… Qualcuno ricorda?

Ci sono cittadini che disperano di avere l’aiuto dello Stato e decidono di fare virtuosamente “da soli”: ma questo significa eo ipso che non esiste più un principio comune da applicare e seguire, e che non esiste più neppure la democrazia, anche, perché non tutti quelli che subiscono questa “iniziativa privata”, magari, sono d’accordo!

Io, per esempio, come donna, mi sentii molto umiliata dall’idea che la mia integrità fisica dovesse essere difesa da cittadini che giocassero a costituire una “paramilizia” armata privata e che, magari, si sarebbero persino sentiti in “dovere” di consigliarmi di non uscire di casa dopo una certa ora o vestita in un certo modo!

Come docente precaria in lotta contro lo smantellamento e l’umiliazione della Scuola pubblica e statale, quella che ha perequato le sorti dei figli d’Italia, che ha garantito la mobilità sociale nel paese e che, fino a quando non è stata introdotta la maledetta “autonomia” che ha trasformato i docenti in servi e gli studenti in clienti da “accontentare” e trattenere, ci veniva invidiata da tutto il mondo (specie la scuola elementare!), sono sempre rimasta delusa dall’esiguo numero di manifestanti scesi in piazza per il diritto a una scuola laica, di massa e di alto livello per tutti, e per le difficoltà incontrate nel portare in piazza genitori, colleghi, dirigenti, nonostante fossimo (siamo!) tutti minacciati dalla polverizzazione e neutralizzazione degli statuti e dei valori che hanno tenuto su la società, attraverso il canale privilegiato della scuola pubblica.

Eppure una protesta massiccia, spinta fino al blocco delle attività come quella che ha visto protagonisti i docenti precari e di ruolo assieme contro la legge Aprea e, soprattutto, contro l’aumento unilaterale dell’orario di lavoro a 24 ore a parità di salario proposto dal governo Monti, riuscirebbe invece a riportare l’attenzione sull’agonia della scuola: perché, dunque, si preferisce supplire egoisticamente, territorialmente, parcellarmente e con esiti necessariamente discriminatori (non tutti i territori sono uguali e non tutti i privati sono ugualmente equilibrati e disinteressati!) all’indecente inazione dello Stato e ai suoi corrotti apparati, invece di rimboccarsi le maniche nella direzione politica e civile della protesta seria e della pretesa, dal basso, di un cambiamento immediato delle priorità politiche e dei settori su cui investire?

Anche noi fautori e tutori della Scuola pubblica in disaccordo totale con l’ingerenza privata nel delicatissimo settore dell’istruzione potremmo, autotassandoci o cercando sponsors e marchi locali, salvare le scuole singole in cui lavoriamo e dare ai nostri studenti o figli una marcia in più… Ma è lecito, è legittimo, è salutare per la pace sociale e civile, surrogare in modo saltuario e desultorio l’intervento dello Stato in una materia che è di sua competenza per principio costituzionale?

E’ giusto, poi, sollevare uno Stato cui versiamo il 52% delle nostre entrate in tasse, tra l’altro, dai suoi doveri precipui nei confronti di un bene comune non mercificabile e vitale quale l’istruzione e formazione dei cittadini?

Infine, mi pongo domande di ordine pragmatico anche io, non solo per sfuggire alla solita accusa di ideologismo retrivo o di conservatorismo sinistroide e balordo, ma anche perché si tratta di problemi che gli entusiasti colleghi del Beccaria, nella loro volontà di occupare il vertice della “hit parade” degli istituti virtuosi ed “efficientizzati”, non hanno, mi pare, considerato.

Per esempio: se l’impresa che finanzia la scuola dovesse assumere un atteggiamento antisindacale verso i suoi dipendenti (se, per esempio, le donne, in quell’impresa, palesemente o sottobanco, venissero di prassi licenziate appena comunicato di essere incinte, tanto per dire), la scuola dei “valori” e delle pari opportunità potrebbe accettarne il contributo? Si farebbe o no il problema?

Oppure vale ormai solo il principio che pecunia non olet, machiavellicamente, sicché è passatista anche continuare a ritenere la scuola come il luogo in cui trasmettere messaggi che abbiano a che fare con la dirittura etica e con la correttezza deontolotica e morale?

Se, invece, mi chiedo, l’impresa o le imprese che finanziassero la scuola in modo sostanziale e non più accessorio dovessero avere un rovescio di fortune, potrebbe la scuola tutta, o anche il singolo liceo, accettare di non poter garantire ai fratelli degli studenti del quinquennio precedente lo stesso standard di qualità, causa “fallimento” o “congiuntura economica sfavorevole”?

Io credo che non ci sia malafede né dietro l’entusiasmo di chi ha offerto generosamente il suo aiuto, né dietro l’entusiasmo di chi ha accettato tale aiuto come “nuovo corso ineludibile” della storia del paese. Credo che siamo tutti sottoposti ad un martellamento mediatico e politico che ci fa apparire la soluzione privatistica e neoliberista come moderna (quando invece medievalizza lo Stato e la Scuola!) e come inevitabile.

Non è vero, così come non è vero che il debito vada ripianato tagliando la spesa pubblica e lasciando la gente onesta nella disperazione. Abbiamo tutte le risorse per reagire, da cittadini italiani preoccupati del domani, da intellettuali lungimiranti e da persone civili e riflessive, a questa distorsione di valori e a questa vacatio legis creata artatamente allo scopo di abbandonare al Mercato e alle sue dinamiche quel che non può essere né fluttuante né condizionato né soggetto alla legge della domanda e dell’offerta, come ribadiscono ogni giorno illustri giuristi e protagonisti della nostra storia civile quali Stefano Rodotà e Ugo Mattei, promotore, quest’ultimo, dei referendum per l’acqua pubblica e i beni comuni, gente senz’altro più avveduta e autorevole, me lo si conceda, con tutto il rispetto, di Claudio Bisio.

Reagiamo, dunque, tutti insieme e per la Scuola di tutti! Non aspettiamo di raccogliere i frutti della violenza e della regressione culturale che la sperequazione di trattamento riservata agli studenti d’Italia immancabilmente porterà! Adottiamo il buon senso!

da Blog Scuola - Per chi suona la campanella
“Adotta un cervello” al liceo Beccaria
http://blog.iodonna.it/scuola/2013/04/08/adotta-un-cervello-al-liceo-beccaria/