I compiti a casa: inutili, dannosi, stressanti… esattamente come la scuola!


Leggo su “La Tecnica della Scuola” in data 31.01.2016 l’articolo di Alessandro Giuliani che riporta l’autorevolissima presa di posizione di un DS, Maurizio Parodi, assolutamente favorevole all’abolizione dei compiti a casa, al punto da organizzare una campagna on line di raccolta firme che già ne ha registrate ben 6.500!

Al tema il DS ha trovato tempo ed energie per dedicare più di un saggio.

Giuliani cita: “Basta compiti! Non è così che si impara” e “Gli adulti sono bambini andati a male”.

Colpito da questi titoli-slogan,  ho l’impressione che rivelino il carattere e lo stile di chi è assolutamente sicuro del fatto proprio, per nulla assalito dal fastidioso dubbio che magari le cose possano anche essere diverse da come pensa lui.

E mi permetto  sommessamente di chiedere se “tutti, ma proprio tutti” gli adulti sono “bambini andati a male” oppure  se c’è qualcuno – magari l’autore del testo – che si è prodigiosamente salvato da questo processo di deterioramento e scadimento, che a me fa pensare più a degli yogurt che a degli essere umani.

Nell’articolo ci è elargita una copiosa serie di affermazioni simpaticamente perentorie a sostegno di tale tesi, che – immagino – sta già trasformando il DS in questione in uno dei migliori leader educativi del momento.

A  cominciare dalla premessa, che da sola è più che eloquente:

“Nessuna norma impone di assegnare compiti a casa”.

Fantastico, è già tutto risolto, allora!

Non c’è la norma che disciplini dettagliatamente regole ed eccezioni!

Verrebbe da obiettare: e il buon senso?

No, quello l’abbiamo già eliminato da un pezzo da tutte le problematiche didattiche (e non solo!).

Ha diritto di esistere, quindi,  solo ciò che è normato: viva l’autonomia scolastica, poggiandola su queste premesse; viva la libertà di ricerca didattica, di innovazione, di programmazione e via discorrendo: tutto possibile, ma a patto che ci sia la norma!

Ecco qui esibito il primo, fondamentale requisito del perfetto DS: la conoscenza della normativa.

Ma poi non può mancare, detto in altra sede, lo sfoggio di erudizione: i compiti durante le vacanze sono una contraddizione persino linguistica, perché “vacanza” deriva dal latino “vacare”, che significa “essere vuoto, senza ingombri”, come appunto tali – e non altro – sarebbero i compiti.

Forse il Nostro avrebbe potuto andare un pochino oltre nella sua esplorazione sul mondo latino e riflettere sulla coppia di termini “otium/negotium”, il primo dei quali – Cicerone docet! – è quasi sempre in funzione del secondo.

In “otium”, in “vacanza” ci si riposa–  ci mancherebbe! –, ci si rilassa, si hanno ritmi più rallentati: ma non si stacca affatto del tutto, si legge, si studia, si impara, si conversa con gli amici, si approfitta di ogni occasione per ritemprarsi e prepararsi meglio al “negotium”, cioè all’attività lavorativa.

Vale per il professionista di ieri e di oggi: ma certamente Parodi riterrà che sia un pensiero obsoleto e non debba più valere oggi .

Perché i compiti a casa sono ovviamente tutt’altro ed egli li caratterizza con aggettivi impietosi, tutti motivati con certosina precisione:

“sono inutili perché…”;  “sono dannosi perché…”, ecc….

E vanno assolutamente aboliti nella scuola dell’obbligo: alle superiori, poi, magari si vedrà. Se gli studenti non sono stati abituati a farli prima, poco male: li faranno dopo! Perché rovinare i loro anni migliori, perché farli diventare adulti troppo presto? (e così farli andare a male: che strano, una volta si diceva “maturare”, ora si salta quella tappa e si va direttamente alla “marcitura”!).

Teniamoli bambini a lungo, spianiamo loro la strada, alleggeriamoli dal fardello di zaini troppo pesanti e dall’ingombro di compiti che deturpano le loro giornate.

Ciò renderà certamente ancora più agevole il “salto” dalla secondaria di primo a quella di secondo grado: aspetto del problema, questo, che non deve certo preoccupare il nostro DS, con buona pace di tutti gli orientamenti e i raccordi tra ordini di scuola raccomandati anche dalla “Buona Scuola”.

A meno che non pensi che la scuola dell’obbligo potrà in tal modo dare virtuosamente l’esempio e che si possa così finalmente arrivare ad una piena abrogazione di quest’infamia dei compiti. E si potrebbe ovviamente contagiare anche l’Università, abolendo anche lì le esercitazioni e le preparazione degli esami su quei noiosissimi manuali o farraginose dispense.

Non ho, sinceramente, né il tempo né la voglia per entrare nel merito di ciascuna articolata motivazione del perché gli studi a casa siano “discriminanti” (avvantaggerebbero gli studenti già avvantaggiati, che hanno genitori disposti a farli per loro; non certo quelli che li fanno da soli e contando sulle proprie forze!) o “prevaricanti o “limitanti” ed altre amenità del genere: le lascio all’attenzione e alla confutazione non solo di chi la scuola la vive tutti i giorni sulla propria pelle, ma anche e soprattutto di chi vuole imparare qualcosa davvero – a qualunque età, e prima si comincia meglio è – , cercando di interiorizzare le conoscenze, di ricordare con precisione per non dover dipendere da qualche supporto informatico.

“Ché non fa scienza/ sanza lo ritenere, avere inteso” (Dante, Par.V. 41-2): probabilmente anche questo è del tutto superato, nella magica scuola del Duemila in cui si apprende senza sforzo e non si deve più ricordare alcunché.

Basta studiare, allora, in una parola: tanto ormai  è fuori moda (si veda l’ultimo libro di Paola Mastrocola, “La passione ribelle”: immagino che anche qui Parodi non sarà per nulla d’accordo con retrograde affermazioni quali: “Lo studio non è un'ombra che oscura il mondo, non è una crepa sul muro che incrina e abbuia la nostra gioia di vivere. È la leva con cui possiamo rivoluzionare la nostra vita.”).

Macché: lo studio  non serve più, non ha più senso.

Oppure ne ha ancora, nonostante tutto?

Perché se ne ha, come si fa a studiare  – anche e direi soprattutto nella scuola dell’obbligo –senza memorizzare, ripetere, esercitarsi, trasformare le conoscenze in capacità e in competenze (forse questo è il linguaggio col quale meglio ci si può intendere col Nostro)?

E pongo due domande: ma fare i compiti a casa non può voler dire anche condividerli  coi compagni (coi compagni, non coi genitori, sempre solleciti ad impedire – per fortuna ancora non tutti! – che la loro creatura troppo si affatichi, che sottragga troppo tempo allo sport o ai videogames, soltanto per compiacere quei docenti che non sanno insegnare se non assegnano compiti: che incapaci, mannaggia! E il bravo DS mica i docenti deve sentire, ma i genitori, perché la nuova scuola , si sa, è al servizio dei “clienti” o dell’ “utenza”!), socializzare, imparare a collaborare, a confrontarsi, a rivedere assieme gli appunti, a interrogarsi a vicenda, avvalendosi magari anche di tutti i formidabili ausili informatici di oggi (Facebook, WhatsApp, email, ecc..)?

Oppure il luogo e il tempo dello studio devono essere ancora più ghettizzati di quanto già non siano: la scuola è scuola e il resto, fortunatamente, è tutt’altro?

Tanto più che – Parodi dixit – oggi il 70% delle conoscenze i ragazzi le apprendono al di fuori della scuola. Conoscenze o informazioni? Non si sta facendo anche qui una tremenda e pericolosissima confusione?

E, ultima e forse più importante domanda: non è mai sorto all’esimio DS il sospetto che quella serie veemente di aggettivi (“inutili”, “dannosi”, “limitanti”, “stressanti”, “malsani”) con cui liquida i compiti a casa potrebbe tranquillamente essere estesi alla scuola tout court, di ogni ordine e grado?

Nel qual caso, forse, gli converrebbe pensar per tempo a cambiare mestiere!

                                                                                              Stefano Casarino