Intervista con lo storico e linguista Claudio Marazzini, Presidente dell'Accademia della Crusca


Intervista con lo storico e linguista Claudio Marazzini ( nella foto a destra ), Presidente dell'Accademia della Crusca ( intervista di Filomena Fuduli Sorrentino  nella foto a sinistra ). La lingua italiana, che soffre della mancanza di identità collettiva e conoscenza della storia da parte degli italiani, ha troppi "forestierismi"? "Nel 1861 l'Italia fu fatta in maniera un po' improvvisata... Gli squilibri erano tanti, anche nel campo dell'educazione civile... Sentire la dignità della propria lingua non vuol dire essere fascisti"  
La lingua italiana è molto bella ma ultimamente si legge parecchio sull’uso spropositato, e ingiustificato, di forestierismi tra i giovani italiani, fenomeno che fa riflettere a lungo non solo sulla linguistica ma anche sulla psicologia sociale connessa al comportamento dei giovani italiani. Così, per capire questa diffusione di forestierismi abbiamo intervistato Claudio Marazzini, Professore ordinario di Storia della lingua italiana e Linguistica italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università del Piemonte Orientale “A.Avogadro” (Vercelli) , linguista e saggista italiano e membro della “Società Italiana di Glottologia”. Il 23 maggio 2014, Marazzini è stato eletto Presidente dell’Accademia della Crusca.
Marazzini è autore di numerosi saggi, articoli e volumi su temi, relativi alla questione della lingua, alla storia linguistica regionale, ai rapporti lingua-dialetto, al linguaggio letterario, alla cultura popolare orale, alla storia della linguistica, alla lingua della scienza, e alla storia della lingua italiana.
Professor Marazzini, il fenomeno delle lingue che evolvono si è verificato attraverso i secoli. Le lingue cambiano con termini linguistici dalle provenienze più svariate, arricchendosi o impoverendosi. Qual è la situazione attuale della lingua italiana su questo tema?   
“Ovviamente si muove, così come si muovono tutte le lingue.  Però l’italiano vive gli effetti di una condizione speciale, tutta sua: non si è mosso un gran che dalle origini fino all’Ottocento, ma si muove di più oggi, perché dall’Unità d’Italia del 1861 in poi è diventato una vera lingua di popolo, mentre prima era soprattutto la lingua di una ‘élite’ intellettuale”.
Negli USA l’immigrazione è un fenomeno strutturale della società americana che rappresenta anche un’opportunità di arricchimento. In Italia, invece, il flusso d’immigrazione non è ancora un fenomeno strutturale, anche se in tutto il paese le scuole diventano sempre più eterogenee. Professore, possiamo parlare di causa ed effetto riguardo agli stranieri che vivono in Italia e di come l’italiano si evolve con termini stranieri? 
“Credo che l’immigrazione non abbia alcun rapporto con i cambiamenti dell’italiano. Prima di tutto il numero totale delle persone che arrivano e si fermano è ancora percentualmente limitato. Poi costoro non sono portatori di una lingua unica, perché arrivano da località molto diverse. Semmai hanno il problema di imparare l’italiano per integrarsi. Non possono influenzare l’italiano perché chi influenza deve avere ‘prestigio’ linguistico, e questi poveretti non ne hanno. Non si tratta certo di immigrazione intellettuale!  Sono persone disperate in fuga, e molte volte non vogliono affatto restare in Italia, ma sperano di raggiungere altri paesi europei”.  
Lei ha condotto degli studi sull’uso dei forestierismi nella lingua italiana. Quali lingue influenzano maggiormente l’italiano?  
“Ovviamente l’inglese, un po’ perché la cultura americana è dominante, un po’ perché una certa quantità di italiani ha la testa in America e non capisce più niente che non sia americano. Una reazione che a volte sembra degna di individui sottosviluppati e senza una propria storia”.  
La lingua è la nostra identità. Al Convegno “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi “, Lei ha affermato: “In Italia manca il senso d’identità collettiva e una buona conoscenza della propria storia e della propria lingua.” Lei come spiega la mancanza dell’identità collettiva e la conoscenza della storia in Italia?
“La spiego con la realtà di uno stato molto giovane, nato nel 1861 quasi per caso, per l’azzardo di un re, Vittorio Emanuele II, che andò al di là del calcolo più razionale del suo ministro Camillo Benso di Cavour.  In ogni modo nel 1861 l’Italia fu fatta, seppure in maniera un po’ improvvisata, e nel 1870 ebbe anche la sua capitale, Roma. Gli squilibri erano tanti, economici e culturali, e anche nel campo dell’educazione civile. Ne paghiamo ancora le conseguenze, ma il processo è ormai irreversibile. Le cose dovrebbero via via migliorare”.  
Parlando di forestierismi non si può fare a meno di ricordare l’imbarazzante politica linguistica di Mussolini durante il Fascismo. Come si affronta il problema del forestierismo senza esitare, ma evitando atteggiamenti d’intolleranza già manifestati durante il Fascismo?
“Credo che la lezione migliore sia guardare agli altri europei neolatini. Possiamo confrontarci con Francia, Spagna e Portogallo. Così potremo superare il complesso di essere stati fascisti dal  1922 al 1943. In questo modo, forse, ci renderemo conto che sentire la dignità della propria lingua non vuol dire necessariamente essere fascisti, anzi il contrario”.   
Lei è autore di circa duecento pubblicazioni, tra libri, saggi in riviste nazionali e internazionali, ed edizioni critiche. Nel suo libro, Italia dei territori e Italia del futuro. Varietà e mutamento nello spazio linguistico italiano , a pagina 209, parla dell’egemonia. Il concetto politico usato da Antonio Gramsci, che annotò l’importanza nel popolo che riceve e accoglie le innovazioni linguistiche. Il concetto fu utilizzato anche da Pasolini, come riferimento alla nuova borghesia industriale del dopoguerra. Possiamo ritenere che l’uso di forestierismi nella lingua italiana di oggi sia un concetto di egemonia popolare? E come spiegarlo?
“Attenzione: l’egemonia di cui parlava Gramsci, quando osservava quali fossero le fonti di innovazione linguistica a cui il popolo era più sensibile, non era “egemonia popolare”. Era “egemonia della classe borghese”. L’egemonia viene infatti esercitata da qualcuno che ha il potere e la capacità di influenzare gli altri, condizionandone le scelte e i comportamenti. Qualcuno che sta su, non giù, non in basso. Dunque, al tempo di Gramsci, il popolo stava diventando sensibile all’egemonia dei partiti politici, dei giornali, di una parte della classe dirigente.  Era una cosa nuova, perché spesso in Italia (e negli stati italiani preunitari) la classe dirigente, nel corso dei secoli, non aveva saputo esercitare alcuna egemonia: si era fatta i fatti suoi ignorando il popolo, il quale a sua volta viveva una vita a parte, estraneo a ogni grande scelta nazionale o civile.  Nel dopoguerra una certa egemonia della classe dirigente si è creata, e la società italiana è diventata più organica e omogenea. Oggi, però, la nostra classe dirigente mi pare qualitativamente assai modesta, culturalmente povera, e fra l’altro subisce con una passività esasperante l’egemonia della cultura americana e anglosassone in generale, dimostrando non solo di non saper difendere la propria lingua e la propria cultura (che spesso non ama e poco conosce), ma anche dimostrando di non saper apprezzare grandi conquiste europee, come le idee illuministe e lo stato sociale. Sinceramente, la classe dirigente italiana è spesso manchevole, poco colta, bigotta, esterofila in modo superficiale e allo stesso tempo radicata nel suo provincialismo”.  


Filomena Fuduli Sorrentino  ( Per La Voce di New York )