Quegli slogan dei violenti con la scuola non c'entrano nulla

di Gianni Mereghetti  - venerdì 5 ottobre 2012


Gli studenti sono scesi nelle piazze di alcune città italiane come Roma, Milano, Torino e Palermo e hanno messo in scena un copione prestabilito con dosi notevoli di rabbia contro cose e persone. È una protesta che ha obiettivi del tutto pretestuosi: basta leggere gli slogan per capirlo, che Monti e Profumo stiano privatizzando la scuola, che stiano facendo spazio a banche e aziende è una favola che non ha alcun riscontro nella realtà, come il fatto che il sapere torni ad essere privilegio per pochi.
Questa protesta non ha a che fare con la condizione di vita degli studenti della scuola superiore, questi slogan non fanno parte della vita di tutti i giorni dentro le classi, sono obiettivi elaborati da centrali sindacali e politiche che hanno bisogno di canalizzare il disagio a interessi di destabilizzazione del potere. Sono, quelle di oggi, proteste che non appartengono al mondo studentesco. Questo è il dato amaro e preoccupante di quanto è accaduto in tante piazze italiane e che non ha altra prospettiva se non quello di produrre rabbia e scontro.



Urge tornare alla realtà, e la realtà della scuola oggi è difficile non solo perché la crisi pesa duramente sulla situazione finanziaria delle singole scuole, ma soprattutto perché l’esigenza dei giovani è di vivere appieno quello che la scuola offre come possibilità di educazione. Il dramma della scuola non è che Profumo la stia privatizzando, né che il sapere stia diventando un privilegio; il dramma della scuola è che si pensa di passare attraverso questo momento di crisi senza affrontarlo. Questo è il problema serio, pensare di potersela cavare senza prendere in mano la situazione. E chi ha alimentato la protesta di oggi non fa che potenziare una posizione di passività di fronte alla crisi che invece chiede interventi propositivi e sempre più geniali.
Due sono i suggerimenti che si possono dare a chi oggi non vuole vivere dentro la scuola subendo la situazione. Il primo è che è dal di dentro delle classi, nel rapporto quotidiano che emergono le domande più vere e significative della condizione giovanile. In piazza è andato in scena un mondo giovanile che non c’è, slogan di un passato extraparlamentare che oggi non abita dentro la scuola italiana. Urge tornare al presente, alle domande di senso che in ogni ora di lezione fanno capolino. Sono quelli gli interrogativi da prendere sul serio e a partire dai quali intraprendere una ricostruzione. E non per un prevalere del lato personale contro quello politico, ma perché la dignità di una protesta vibra solo se affronta il quotidiano, se apre un varco dentro il bisogno di senso con cui uno studente legge una poesia, fa un compito di matematica, interpreta un’opera d’arte.
Il secondo riguarda la scuola come istituzione. Non è la privatizzazione il rischio di questa scuola, è la paralisi! Bisogna da subito mettersi a lavorare per identificare ciò che interessa, ciò che vale per costruire da lì. La crisi c’è, le scuole hanno di meno, è questo il momento in cui facciano valere la loro autonomia. Di fronte ai tagli che colpiscono le scuole, costruire è che studenti, insegnanti, genitori, dirigenti scolastici abbandonino l’atteggiamento fatalistico o di lamento che spesso li contraddistingue per mettersi a costruire.
Per fare questo bisogna partire da una decisione imprescindibile, quella di stabilire le priorità, quella di identificare le cose importanti su cui impegnare energie e risorse. Autonomia è fare questo lavoro, altrimenti non rimane che la rabbia e la protesta che non portano, di fatto, a nulla. Il futuro della scuola non dipende dalla piazza, ma da questa scelta.

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