L’ultima di Profumo: scuole superiori ridotte a 4 anni

di Marina Boscaino


«Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora». Non sono le parole di un pericoloso sovversivo-fannullone-ideologico, ma quelle di Einaudi, in un articolo del 1913.
Indifferente all’opinione di un maestro del pensiero liberale, lui parla sempre al futuro, in- comprensibilmente certo della propria longevità politica ed incapace, a fronte dei continui annunci che hanno costellato il suo mandato, di concepire una rendicontazione anche minima, dopo un anno di attività il cui unico risultato certo è il concorsone.




«Non faremo l’intervento nella legge di stabilità, però si è aperta la discussione su questo tema e insieme alle componenti della scuola, le parti sociali e i partiti avvieremo un ragionamento di come dovrà essere la figura dell’insegnante del futuro». Così Profumo agli amatissimi media. Lo stesso a cui il sottosegretario Polillo, qualche settimana fa a Ballarò, attribuiva la paternità della proposta indecente delle 24 ore a parità di salario.
Il problema, parlando dell’eufemistico «insegnante del futuro», al di là delle demagogiche suggestioni pseudo-europeiste (smentite da tutti i dati a disposizione sull’orario di lezione degli insegnanti nell’ Unione europea), non è tanto come dovrà essere, ma quanto dovrà lavorare, in termini di tempo. La risposta dei decisori – indifferenti a valutazioni pedagogico- didattiche e alla specificità della nostra professione – è di più.
La melina sulla vicenda è inquietante; per noi la parola d’ordine è non abbassare la guardia, finché non leggeremo il testo ufficiale. E, se la questione, come presto dovremmo sapere, dovesse rientrare, sarebbe solo rinviata. Ma la possente mobilitazione del mondo della scuola avrà dimostrato che è sconsigliabile intervenire su orario e salari al di fuori del contratto: servizio di dignità che abbiamo reso a tutto il mondo del lavoro.
Poiché il tema, almeno dal 2008 ad oggi (ricordiamo che la “riforma” Gelmini è partita dall’art. 64 della l.133 dall’inequivocabile titolo: Contenimento di spesa nel pubblico impiego) è fare cassa, si cercano soluzioni, ricorrendo sempre e comunque al totem europeo, panacea di un Paese che continua a foraggiare la casta, non perseguire doverosamente l’evasione fiscale, tollerare abusi di ogni tipo, e a tagliare sul futuro dei suoi giovani cittadini.
La nuova frontiera è il ripensamento del tempo-scuola: eliminare un anno di scuola superiore. Risparmio stimato: circa 3 miliardi di euro. Un bottino niente male. Naturalmente, ce lo suggerisce l’Europa. Ma non è vero.
Terminano tutti a 19 anni in Bulgaria, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia, in Germania il liceo e alcuni professionali, in Scozia solo questi ultimi. Nella Repubblica Ceca, in Lussemburgo e Romania la maggior parte delle scuole arriva a 19 anni. In Ungheria e in Romania gli studenti che non continuano all’università fanno un anno in più di superiori, come accade in Grecia e Cipro per licei, serali e professionali in alternanza, che in Austria e nei Paesi Bassi vanno 1 o 2 anni oltre il limite dei 18.
Panorama eterogeneo, dunque, al di là delle granitiche certezze del governo e del Pd, che per oggi sul tema organizza a Roma il convegno «Cambiare la scuola, far crescere il futuro»: noi mobilitati (domani numerosissime assemblee in tutte le città) a difendere la scuola pubblica; loro a programmarne un accorciamento. Vittorio Campione argomenta la scelta sostenendo che «La scuola non è più il luogo dove si impara ciò che serve per tutta la vita». Dimenticano di aggiungere – i grandi strateghi dei sistemi di istruzione – che il nostro è l’unico dei 27 Paesi Ue che al termine del biennio non prevede «obbligo scolastico», ma «obbligo di istruzione», assolvibile così in V ginnasio come nell’apprendistato (sic!). Senza aggiungere, poi, che del 62% dei diplomati che va all’università, il 18% abbandona dopo un anno e solo il 50% si laurea in tempo. La media italiana dei laureati tra 25 e 34 anni è del 20% contro il 35% UE e il 60 e 49% di Canada e Corea.
Sono queste le condizioni per rottamare definitivamente la scuola pubblica come luogo obso- leto o – viceversa – per riaffermarne la centralità, invertendo, con un potente investimento culturale ed economico che non si concretizzi in annunci (ovviamente al futuro) di tablet, Lim e computer nelle classi, la mortificazione che dura da anni e che culmina negli inquietanti dati di dispersione e ritardo scolastici?
Come può rimuovere «gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» una scuola governata dall’egemonia del bilancio e da un’idea meccanica della produttività, che aggrava le differenze su base socio-economica?


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