Cervelli in fuga: Italiani ad Harvard

di Chiara Trebaiocchi


La prima volta che sono entrata nello yard di Harvard non sapevo ancora che quel crocevia così denso di studenti e turisti a breve sarebbe stato per me una nuova casa. A colpirmi di più non furono tanto gli edifici con i caratteristici mattoncini rossi, o la celebre statua delle “tre menzogne” (la terza più fotografata di tutti gli Stati Uniti), ma le sedie dalle tinte vivaci occupate dai ragazzi immersi nello studio, dai visitatori in cerca di un breve riposo, da mamme e bambini, in un continuo e vitale via vai. Esattamente due anni dopo tornavo ad Harvard non più come turista, ma come Phd candidate del dipartimento di Romance Languages and Literatures. Quelle sedie hanno acquisito allora il sapore dolce di un obiettivo fortemente voluto e raggiunto con fatica e impegno, in cui però talvolta non riesco a non sentire l’amaro retrogusto di una scelta obbligata.
Il cervello parte, ma il cuore resta a casa
La mia storia non è troppo diversa da quella di molti giovani italiani che, con alloro e lodi accademiche, si sono decisi a lasciare l’Italia per cercare migliori opportunità di studio e di lavoro all’estero. A casa rimangono gli affetti, la famiglia e gli amici, sacrificati alla speranza di trovare un ambiente lavorativo più fertile e vitale, aperto a giovani preparati e promettenti. Dentro rimane la rabbia, per le vuote promesse della politica e per gli slogan superficiali con cui siamo spesso catalogati: ci chiamano “cervelli in fuga” se decidiamo di partire, “bamboccioni” se decidiamo di restare. Nel 2013 il cinema made in Italietta non ha mancato di deliziarci con Fuga di cervelli, un brutto remake di un film spagnolo in cui quella che è una piaga sociale ed economica del nostro Paese è ridicolmente banalizzata. A ben pochi è data la possibilità di raccontarsi, di spiegare una scelta talvolta difficile e dolorosa: dietro un “cervello” che parte c’è spesso un cuore che resta in Italia; c’è chi vuole ritornare e chi, ormai troppo deluso, lascia la valigia a impolverarsi nell’armadio. Per molti siamo i talenti migliori, un enorme patrimonio inutilizzato di un’Italia che lentamente si spegne perdendo così la sua linfa vitale; per alcuni il nostro è un atto di codardia, avendo preferito partire piuttosto che cambiare il Paese. Dumas scrisse: "tutte le generalizzazioni sono pericolose" (compresa la sua stessa frase). Ho pensato perciò di dare voce in questo spazio alle parole di chi come me si trova ora a studiare e lavorare sotto il color crimisi di Harvard. Ahinoi, non è purtroppo possibile racchiudere qui le storie, intrecciate ma uniche, dei tanti italiani che ho incontrato finora nel mio percorso; tutte queste storie meriterebbero di essere raccontate, perché parlano di giovani capaci che, nati nel decennio sbagliato, hanno trovato negli USA un ambiente più stimolante in cui proseguire gli studi e soprattutto vedere gratificati i propri sforzi con i giusti riconoscimenti.






Con in testa un biglietto di ritorno 
Ho chiesto ad alcuni di loro di raccontarmi i motivi che li hanno spinti a partire, cosa hanno lasciato e cosa hanno trovato nel “nuovo mondo”: si sentono rappresentati dall’espressione “fuga di cervelli”? E soprattutto sperano in un futuro a stelle e strisce o lo credono ancora possibile in Italia? Le risposte a quest’ultima domanda mi hanno particolarmente colpito. La voglia di tornare a casa, infatti, ombreggia più o meno velatamente dietro le parole di tutti, accompagnata della realistica consapevolezza di quanto sia difficile – se non impossibile – trovare in Italia condizioni di vita e occupazione gratificati come quelle attuali (non a caso, purtroppo, la mia domanda era posta in questi termini: a cosa saresti disposto a rinunciare per tornare?).
Francesco C. (25 anni) e Giulio (29 anni), matematici, si dicono disponibili a lavorare più ore e ad accettare una paga minore in cambio di una maggiore vicinanza alla famiglia e di una migliore qualità della vita, senza però rinunciare alla possibilità di ambire a un posto a tempo indeterminato. Il presupposto basilare rimane comunque l’esistenza di un ambiente di ricerca aperto e interessante in cui trovino spazio i talenti italiani e di altre nazionalità, come specifica Francesco P. (32 anni). Per lui, attualmente post-doc alla Harvard Medical School and Brigham and Women’s Hospital, e per Stefano (27 anni), dottorando presso il Cognitive Neuropsychology Laboratory, non è immaginabile fare ricerca in un posto privo dei fondi e delle risorse necessarie: ricerca, insomma, significa produrre benefici per tutti, indipendentemente da dove sia svolta. Un sistema più efficiente e mirato, maggiori investimenti a livello nazionale e la possibilità di avere più certezze nel lungo periodo sono le condizioni imprescindibili per decidersi un giorno ad acquistare un biglietto di sola andata per l’Italia. Putroppo questi presupposti sembrano quantomai lontani.
Quell'entusiasmo che manca in Italia 
Harvard offre anche molti stimoli intellettuali, inseriti in un contesto multiculturale ancora inesistente in Italia. I servizi, le strutture (in particolar modo, gli uffici amministrativi, i laboratori e le biblioteche), le opportunità lavorative, dentro e fuori il mondo accademico, sono altri punti di forza del sistema universitario e dell’ambiente in cui ci troviamo ora a vivere; la percezione stessa dell’importanza dell’università e della ricerca e un’effettiva meritocrazia in ambito lavorativo emergono tra le differenze maggiori rispetto a quanto sperimentato in Italia. Eloisa (25 anni), come me dottoranda presso il dipartimento di Romance Languages and Literatures, ha scoperto inoltre un terreno più ricettivo nei confronti dei giovani, in cui è maggiore non solo la possibilità di proporre nuove iniziative, ma anche di realizzarle con le giuste risorse e soprattutto con un entusiasmo e un’energia che in Italia, in particolar mondo nel mondo delle Lettere, sembrano essersi tristemente e drammaticamente affievoliti.
Non sentirsi in fuga
Dall’esprienza universitaria italiana di tutti noi emerge la ricchezza dell’offerta didattica del nostro Paese, che si distingue ancora oggi nel formare studenti e ricercatori altamente preparati e apprezzati all’estero. Le maggiori difficoltà arrivano infatti soprattutto nella fase successiva alla laurea, quando ci si scontra ancor più con i limiti imposti dai tagli, con le risorse insufficienti e talvolta con la mentalità troppo chiusa da parte di un corpo docente non esposto a un giusto ricambio generazionale. E di fronte a questo scenario spesso la “fuga” sembra essere l’unica soluzione. Per Francesco C. e Stefano, questa espressione è però inadeguata e fuorviante: entrambi non si sentono in fuga dall’Università italiana ma più alla ricerca di un posto dove sviluppare le proprie potenzialità indipendentemente dai confini nazionali.
Più amaro è invece il punto di vista di Francesco P. per il quale il termine “fuga” descrive al meglio la situazione del nostro Paese, in cui "molti Italiani vogliono semplicemente fuggire da un sistema anti-meritocratico che ne mina l’autostima prima e le prosepttive di carriera poi". Il problema è inoltre esasperato dal fatto che – come rileva Giulio – ben poche sono le possibilità di ritorno, così come molto basso è il numero degli stranieri interessati a studiare o fare ricerca in Italia. Infine, il riferimento ai “cervelli” sembra descrivere un fenomeno limitato al mondo universitario, ma non va dimenticato che moltissimi sono i giovani italiani andati via semplicemente in cerca di opportunità di lavoro o per poter mettere a frutto il proprio percorso di studi: si tratta di una generazione di migranti 2.0, zaino in spalla e ipad in mano, partiti con la voglia di realizzarsi, "per vivere un vita normale – osserva Eloisa – senza pesare economicamente sulle spalle dei genitori".
Certo, camminando per la strada non ci si sente del tutto “a casa”. I parenti e gli amici sono lontani, così come le bellezze dell’Italia e della nostra cultura. Passeggiare in un centro storico, visitare una mostra o prendere un caffè semplicemente sfogliando un giornale sono piccoli piaceri che si assaporano più intensamente quando si torna in Italia. E, infine, – considerazione un po’ scontata – come non ricordare il cibo e il buon vino, che forse aiuterebbero a colmare quella nostalgia che alle volte ancora si prova.


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