Il vestito buono della festa, ecco cosa sono gli Open Day

C’era un tempo in cui i “porte aperte” erano davvero qualcosa di figo. Era un tempo in cui tutto quello che incuriosiva, tutti quei luoghi da sempre preclusi alla vista delle masse, venivano improvvisamente aperti, dischiudendo ogni segreto, e donati alla mercé dei curiosi. Era un tempo in cui tutto questo veniva fatto solo per il gusto improvviso di offrire alle masse quella bellezza invisibile nascosta all’interno di quei luoghi, relegati il più delle volte ad essere visibili solo agli addetti ai lavori.
C’era un tempo in cui ci si iscriveva in una scuola piuttosto che in un’altra solo per il gusto e la voglia di frequentare questo o quell’istituto. Era il tempo in cui la scelta di una scuola, piuttosto che dell’altra, derivava - o forse deriva ancora per qualcuno - da una serie di fattori. Innanzitutto dalle proprie attitudini, dalla predisposizione personale a preferire le materie umanistiche alle scientifiche, o piuttosto dalla selezione di un istituto tecnico rispetto ad una scuola professionale. Fondamentali, poi, erano principalmente due fattori. Il primo - e in questo caso a propendere per una scuola o per un’altra erano principalmente i genitori - era la posizione dell'istituto, che doveva essere rigorosamente strategica per gli spostamenti giornalieri da fare per quasi duecento giorni all’anno, ed il secondo - molto spesso dovuto al condizionamento delle scelte degli altri compagni di classe - per restare con gli amici attraverso una sorta di scelta di continuità. La preferenza per questa o quella scuola avveniva quindi “a scatola chiusa”, e l’unico giudizio passava solo tramite un passaggio di opinioni, tra amici e parenti, tra ragazzi più grandi e bambini più piccoli.
All’improvviso, però, questi giudizi di selezione sono improvvisamente decaduti. In questo tempo lo spartiacque nella scelta dell’affidamento dell’istruzione scolastica dei ragazzi viene improvvisamente affidato agli ormai celebri open day scolastici.




Non esiste più una scuola in città che non ne abbia almeno uno. Qualche istituzione scolastica fa il suo porte aperte a dicembre, molte a gennaio, qualcuna a febbraio, ma tutte rigorosamente in concomitanza con lo scadere dei termini per le iscrizioni. Dalle primarie alle secondarie, dai licei alle scuole istituzionali, tutte gli istituti scolastici in questo periodo dischiudono i segreti della didattica, aprendo le loro aule a tutti. Se gli intenti dei primi anni di open day potevano apparire nobili, adesso sembra si sia quasi giunti ad una gara a chi lo fa meglio. Così fan tutti, un po’ per moda, un po’ per emulazione.
Le “giornate di orientamento scolastico in entrata” consisterebbero quindi in un tentativo da parte della scuola di aprire le porte a genitori e futuri alunni, per far si che ogni istituto abbia la possibilità di farsi conoscere; in pratica rappresenterebbero un tentativo di incanalamento degli aspiranti alunni nella scelta più giusta e corretta da fare, in vista dell’anno scolastico successivo. Il problema è che la Scuola, la grande istituzione, da un po’ di tempo a questa parte ha iniziato a fare delle iscrizioni un vero e proprio marketing.
Gli open days - del resto - rappresentano l’unico giorno in cui una scuola si presenta e si mostra al grande pubblico dei non addetti ai lavori, e l’unico momento in cui la Scuola si veste (almeno per una volta all’anno) del suo abito migliore, quello delle grandi occasioni. La triste realtà è che - come ben sappiamo tutti quanti - il vestito della festa si indossa solo nei giorni solenni.
Gli open day hanno trasformano le aule in veri e propri teatri, in cui i ragazzi sono diventati protagonisti inconsapevoli di una macchina che cerca fondamentalmente i grandi consensi del pubblico. Progetti, spettacolini teatrali, conferenze stampa, attività didattiche e laboratoriali, proposte di PON per l’anno che verrà, promesse di qualcosa che verrà attivato negli anni a seguire, eccetera eccetera: questi gli elementi salienti delle proposte scolastiche di un open day. A volte però si aggiunge anche uno sfondo di non poco conto: le proposte di attività extracurriculari. Ed è attraverso questi progetti che le scuole si scontrano, facendo diventare gli open day una vera e propria gara a chi più ne ha più ne metta, una lotta all’ultimo sangue a chi la spunta con più attività: calcetto, pallavolo, piscina, danza, laboratori teatrali, musicali, sensoriali, di cucina, di cucito, di uncinetto e tante altre ancora, attività che il più delle volte sfociano nel ridicolo.
Il problema più grande che deve affrontare la scuola italiana non è il com’è allo stato attuale, e quindi di come attraccare ad un marketing strategico dello stato attuale, ma di come vorremo tutti quanti che fosse, e quindi di come poter concretamente investire in ideali, modelli e archetipi che potrebbero essere in grado di risollevare le sorti attuali di una scuola che non riesce più ad avere degli standard minimi di tollerabilità.
Agli studenti italiani - e ai loro genitori - in questo momento non serve la pubblicizzazione di quante LIM siano presenti all’interno di una scuola, serve capire quanti insegnanti sono realmente in grado di utilizzarla; non necessita idealizzare una scuola che abbia come fondamenti di base le tre I - inglese, impresa, informatica - ma conoscere quanti istituti basino realmente nell’ordinario la loro didattica su questi aspetti. Non servono gli ebook o i percorsi didattici online, servono libri più idonei ad uno studio più diligente dei ragazzi. Non c’è la reale esigenza di deleterie prove INVALSI per verificare lo standard internazionale dei ragazzi, c’è bisogno di ragazzi che siano in grado di svolgerle senza problemi, al modo delle parole crociate da fare nel tempo libero.
Insomma, è necessario che gli standard europei passino anche - e soprattutto - per la scuola italiana, e che le strategie di mercato, al modo del marketing vero, ricerchino l’eccellenza e non l’accomodante. E il grande problema è che questa tattica non passa certo per gli open days.
Nei giorni passati il ministro Carrozza ha accennato ad un’iniziativa che potrebbe dare un nuovo alito vitale ad un’istituzione considerata dai protagonisti stessi - gli studenti - un posto “per vecchi”. La scuola che vorrei, il sondaggio che a breve verrà lanciato dal Ministero, proporrà un’importante inchiesta che potrebbe finalmente delineare i tratti un quadro scolastico sicuramente sconosciuto ai piani alti. Dalle risposte che emergeranno da questo sondaggio potrebbero uscire fuori dei risultati degni di nota, in cui si potrebbe finalmente comprendere qual è il quadro che gli italiani si prospettano per la scuola che vorrebbero. Questo potrebbe essere il seme dal quale potrebbe germogliare finalmente l’eccellenza della scuola italiana, con la rinascita attraverso strutture ultramoderne, con laboratori veri e degni di nota, con programmi che inseriscano realmente i ragazzi nel mondo degli stage e del lavoro e che siano davvero in grado di fornire una cultura di base adeguata.
Il buono degli open days, allo stato attuale, è solo uno: tra operazioni di marketing e scontri all’ultima attività ricreativa, i ragazzi, appartenenti a questa o a quella scuola, per poche ore si sentono protagonisti del loro mondo. La scuola diventa per un attimo una compagna, un luogo dove finalmente avere e sentire la responsabilità di qualcosa. Attraverso gli open day gli alunni recuperano metaforicamente la loro l’identità, mostrando la loro (temporanea) natura di studenti appagati in una scuola felice. Per un giorno finanche insegnanti e operatori scolastici riescono a recuperare - almeno psicologicamente - i frutti di una semina che spesso comporta molti problemi e pochi soldi a casa. Insomma, l’open day è quel giorno, l’unico dell’anno, in cui - forse - si va tutti quanti a scuola più contenti.
Un open day però dura solo poche ore. Inesorabilmente arriverà il post-open day. Da quel momento si tornerà alle interrogazioni, alle spiegazioni e alla didattica, quella pesante e tediosa. E purtroppo si ritornerà anche ai problemi di sempre, alle incertezze e alle complicanze di una macchina scolastica che fa acqua da tutte le parti. E si tornerà anche a vestire l’abito del lavoro, con qualche piega perché stirato male e probabilmente anche con qualche macchiolina, che anche se c’è non si vede. E la quotidianità farà dimenticare lo splendore del giorno di festa, riportando alla luce gli abitudinari problemi di una scuola che non piace (quasi) a nessuno.


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