L'italiano parlato dagli emigrati arrivati in America oltre 30 anni fa e quello parlato dai "cervelli in fuga "


Su La Voce di New York scrivo le mie riflessioni di docente, raccontando cosa significa insegnare italiano nelle scuole pubbliche di New York. Le emozioni, i momenti belli o brutti, e le mie esperienze sono simili a quelle di molti colleghi che vivono negli USA o in altri paesi fuori d’Italia. Un fenomeno che ho osservato durante gli anni è che gli immigrati cambiano lingua, cultura, personalità, e punti di vista ma la loro lingua madre rimane con termini superati.

Vivo negli USA da più di trent’anni, e quando arrivai a New York, notai tantissime fabbriche di ogni tipo, nelle quali gli italiani lavoravano, avendo imparato un mestiere in Italia essi trovavano facilmente lavoro senza bisogno di sapere l’inglese o l’italiano. Anche perché, nei quartieri in cui vivevano, non era importante sapere l’inglese, si capivano perfettamente tra di loro. Con il passar degli anni, mentre la comunità cambiava anche la lingua parlata degli italiani variava.

Tempo fa ho scritto un articolo sull’italianese , il linguaggio di parole miste inglese e italiano creato dagli immigrati italiani di New York. Una varietà di pidgin: linguaggio derivante dalla mescolanza di idiomi di nazioni differenti venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, o relazioni commerciali. Un fenomeno linguistico naturale che avviene in un paese straniero e che riflette la miscela di due o più culture del parlante. Il pidgin ha stimolato anche la curiosità dei sociolinguisti, i ricercatori che studiano il rapporto tra lingue e società in cui gli interlocutori fanno parte. Infatti, parlando di emigrazione, lingua e Paese ci riferiamo a una causa ed effetto sociolinguistica.

Un esempio di causa ed effetto tra lingua e società è il linguaggio degli italiani che lasciarono l’Italia 50-60 anni fa. A quei tempi chi emigrava sapeva parlare solo il dialetto del proprio paese o la lingua regionale, ma non l’italiano. In fatti, sessanta anni fa la lingua nazionale era dei pochi, degli italiani colti che si potevano permettere lo studio, e a quell’epoca nella penisola lo sapevano parlare bene solo il 18 % della popolazione. Per gli emigranti italiani del passato, una volta arrivati nel nuovo Paese tutto iniziava con difficoltà e incertezze, anche se gli espatriati erano pronti ad affrontare le sfide più oscure per sistemarsi. Per capirci meglio, poiché i connazionali lasciavano la patria natìa con l’obiettivo di trovare lavoro, erano molto motivati a farcela senza mollare mai davanti a ostacoli o difficoltà; il loro scopo era trovare un ambiente migliore nel quale inserirsi. Certamente in quelle condizioni non potevano pensare a migliorare il loro italiano, per cui percepivano la necessità di lavorare ma non quella di istruirsi e migliorare linguisticamente.

Oggi tutta la penisola parla italiano, definito l’idioma della ragione mentre il dialetto è il linguaggio del cuore parlato in famiglia o con gli amici per affettuosa ed emotiva condivisione. Bensì, adesso ci sono molti italiani che emigrano nuovamente, e un esempio sono i così detti “cervelli in fuga” , connazionali che hanno alti titoli di studio, sanno parlare bene l’italiano e conoscono l’inglese. Eppure gli emigranti contemporanei lasciano il Paese sempre per lo stesso motivo che lo lasciarono gli emigranti di 50-60-100 anni fa: trovare lavoro, opportunità e fare carriera. Tuttavia i primi italiani lasciavano un’Italia povera e una società nella quale si interrompeva la scuola o gli studi per lavorare. Mentre chi si trasferisce all’estero adesso è laureato/a e ha imparato una lingua straniera che ne favorisce la carriera e l’integrazione.

Nonostante tutto ciò, possiamo notare una differenza linguistica anche tra chi ha lasciato l’Italia 30-20 anni fa e chi vive all’estero da pochi anni. Il modo di parlare, scrivere, e la padronanza dell’italiano di chi vive all’estero da 20-30 anni differisce da chi non abbia mai lasciato il paese o vive fuori dall’Italia da poco tempo. Purtroppo in tutte le lingue, l’interlocutore riflette nei suoi discorsi e nella sua scrittura la propria erudizione, una miscela di due o più culture.

Inoltre, una volta lasciata l’Italia, diventa difficile migliorare il proprio italiano se non si pratica un ambiente dove fa parte del proprio lavoro. Questo succede non solo con gli italiani ma con tutte le popolazioni, in particolare con le persone che pur avendo assolto l’obbligo scolastico fino alla scuola media, sono consapevoli di non saper parlare o scrivere bene la propria lingua per mancanza di pratica, e a volte, questo li pone a disagio, o in condizione di inferiorità.

Eppure, molti italoamericani hanno mantenuto le loro tradizioni e la loro lingua madre, dialetto o idioma regionale, che parlavano prima di lasciare il bel Paese o quella dei loro genitori, ma un linguaggio diverso da quello contemporaneo. E non c’è dubbio che il problema della lingua sia sempre esistito, e che non cesserà di esistere finché nel mondo ci saranno persone di lingue diverse. Pertanto, ognuno di noi lascia segni riconoscibili che distinguono le proprie origini, ed evidenziano le proprie esperienze di vita vissuta fuori dal paese natio. E anche se tuttora gli italoamericani studiano l’italiano nelle scuole, e i giovani che emigrano parlano l’italiano e non il dialetto, tra di loro esiste un evidente divario linguistico e culturale: diversi punti di vista, modi di interpretare gli eventi della vita, e di interagire con gli altri, e per capire questo non si deve essere sociolinguisti.

Pertanto, ogni idioma parlato o scritto differisce secondo lo stato sociale, culturale, e dal livello di istruzione del parlante. È chiaro che la scrittura di un italiano colto che vive in Italia differisce da un italiano colto che vive negli USA per decine di anni. Bisogna tenere in mente che la lingua si muove con cambiamenti linguistici anche in Italia, come il cambiamento dal latino all’italiano durante i secoli, il mutamento negli ultimi cinquanta anni dai dialetti all’italiano, a quello recente della lingua italiana invasa con termini inglesi.
 

Articolo pubblicato su “La VOCE di NY” (http://www.lavocedinewyork.com/column/it/una-prof-in-america/237/)

 

Per La Voce di New York