Ha
avuto una vasta risonanza la lettera del Presidente della Confindustria di
Cuneo indirizzata ai genitori di alunni in procinto di iscriversi alle Scuole
Superiori con l’invito-raccomandazione di scegliere percorsi che introducano il
più velocemente possibile nel mondo del lavoro, perché le imprese hanno bisogno
di operai, non certo di astrofisici o glottologi. Bisogna, dunque, smetterla una
buona volta di pensare che la scuola (e l’università) siano occasioni di
crescita umana ed intellettuale e – come si diceva in tempi ormai lontani – di
promozione sociale; considerarle, invece, come realisticamente sono, autentiche
fabbriche di disoccupati, e scegliere in modo oculato un futuro garantito di manodopera
ben (??) salariata per i propri pargoli.
Sarebbe
interessante sapere cosa ne pensano in quel Ministero che una volta si chiamava
della Pubblica Istruzione e ora suona con l’orribile ed asettico acronimo di
MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca: tutti assieme
appassionatamente e si noti “istruzione” , ben più neutro e molto più di basso
profilo di “educazione”: “nomina sunt
consequentia rerum”, cioè “ i nomi sono le conseguenze dei fatti”):
probabilmente, tutto ciò si inserisce sulla scia dell’ormai affermata
alternanza scuola-lavoro, che prevede la “felice” (??) contaminazione del mondo
dell’impresa, dell’azienda, della fabbrica, del lavoro in tutte le sue forme
insomma, in ogni ordine di studio, anche al Liceo.
Appunto,
anche al Liceo (e non importa qui l’aggettivo che segue il sostantivo).
Una
volta era questa scuola il vero vanto a livello nazionale ed internazionale del
nostro sistema educativo.
Gli
stessi alunni, passando da questa Scuola all’Università (perché certamente
questo è il compito prioritario di qualunque Liceo: quello di preparare, di
allenare ad un impegno intellettuale di lungo percorso e di fornire il metodo e
la cultura di base per affrontare con successo gli studi universitari),
constatavano - e ancora constatano, se solo si ha la voglia di starli a sentire
- i benefici ricavati da uno studio
serio e costante e da una preparazione di base articolata ed approfondita e
ripensano con gratitudine all’alto livello di molti (certo, non tutti: ma
quando mai ciò può accadere?) dei loro docenti liceali, gran parte dei quali
ben più interessati alla didattica e certo non inferiori quanto a preparazione a
molti docenti universitari.
Tutto
questo oggi sembra non contare più.
Sono
cambiati i tempi, la scuola deve tener conto della mutata realtà, è il primo
settore che deve porsi e risolvere il problema della disoccupazione giovanile.
Personalmente
mi avvilisce che pochi obiettino che così si fa una grave, irresponsabile
confusione: di tempi, di modi, di sostanza.
Di
tempi: nella vita umana ci sono dei “prima” e dei “dopo”. Viviamo nell’era
della simultaneità, della contemporaneità più o meno forzata (un’espressione
come “in tempo reale” è di per sé eloquente): ma ciò non deve farci dimenticare
che il nostro tempo procede per scansioni, per tappe. Il bambino deve prima giocare
e poi studiare, cercando di avvicinare e di fondere sempre più queste due
attività nel corso della sua crescita. Idem dicasi per l’adolescente: prima
studiare, poi lavorare e vale quanto detto prima. Accorciare i tempi è
deleterio e, a parer mio, anche un po’ folle: sempre che, beninteso, si guardi
alla maturazione (termine ormai relegato in soffitta) globale dell’individuo in
formazione.
Di
modi: perché si parla di “studio” quasi con disprezzo, pensando che sia
qualcosa di astratto e di avulso dalla quotidianità?
Se
parlassimo di “lavoro intellettuale”, se ricordassimo che il primo compito di
una scuola, qualunque scuola, è quello di far scoprire la bellezza e
l’importanza dello studio (che vuol dire non solo conoscere, apprendere
nozioni, ma soprattutto stimolare curiosità, farsi delle domande, contribuire
alla formazioni di “persone” – altro termine in recente eclisse –
“intelligenti” – che, cioè, si sforzano di comprendere) probabilmente
restituiremmo alla discussione le giuste premesse.
Di
sostanza: ma, infine, cosa vogliamo davvero?
Quale società del futuro
immaginiamo? Una elevatissima maggioranza di tecnici, esecutori, operai che
producono e una ristrettissima minoranza di datori di lavoro, manager, gestori,
amministratori?
In
una realtà del genere, ben venga addirittura l’eliminazione della scuola come
spazio e momento a sé, la sostituzione dei docenti, in fondo dei parassiti che
nulla fanno di concreto e nulla producono, con dei computer o dei robot!
Su
Il corriere della sera di mercoledì
31 gennaio Massimo Gramellini rileva che certamente del sapere umanistico e
anche della correttezza dell’uso della propria lingua il Presidente della
Confindustria cuneese sa fare benissimo a meno, visto che colloca una virgola a
separare il soggetto dal suo predicato verbale (uno di quegli errori da penna
blu nelle Elementari di una volta!); osserva che egli ha certamente in mente
“un’industria dell’educazione” più che una scuola e conclude (meno male, grazie
di cuore!) che bisognerebbe ricordarsi che “la scuola non è nata per formare
dei lavoratori, ma degli esseri umani”.
Nello
stesso giornale Antonella De Gregorio ci informa che l’autore dell’importante
missiva ha però un figlio iscritto al Liceo Scientifico (evidentemente i
consigli dati agli altri non valgono per sé e i propri cari) e che non è poi
affatto vero che la laurea sia solo un pezzo di carta: l’ultimo rapporto di
Almalaurea evidenzia che il tasso di occupazione nella fascia d’età tra i 20 e
i 64 anni è del 78% tra i laureati
rispetto al 65% dei diplomati e che nel 2002 un laureato guadagnava il
42% in più rispetto ad un diplomato.
Credo
che anche di questo le famiglie che hanno ricevuto la famigerata lettera
dovrebbero essere informate.